E allora parliamo d’amore! Ma cerchiamo di capire di che cosa stiamo parlando! Pochi giorni fa era il mio compleanno, 74 anni, un passaggio non particolarmente significativo, solo un altro anno che è passato. E ho fatto l’esperienza diretta di che cosa vuol dire sentirsi amata, un amore che non ha bisogno di fronzoli e orpelli, ma del calore che viene dal fatto che tu senti che conti per gli altri intorno a te, auguri e gentilezze corrono sul web o sul telefono da tutte le persone lontane, mentre chi mi è accanto dedica tempo e condivisione alla giornata con me. E mi trovo a riflettere su tutto il bisogno d’amore che circola in questo mondo malato, e sulle strane attese che questo si trasformi in parole gentili, gesti teneri e dolci, sorrisi forzati, un amore di apparenza.
Così fomentate l’odio, tuonano gli scandalizzati di turno quando esprimiamo rabbia e pena per l’orrore creato dai potenti, e qualche volta quando riusciamo ad inventare congiunzioni ironiche che svelano ciò che si nasconde dietro il pranzo di gala. Eppure io credo che questi siano gesti d’amore, non adeguarsi al perbenismo di facciata e insieme non lasciarsi trascinare nella rabbia impotente e nello sconforto, non accettare che Tina ( there is no alternative) è l’unica possibilità a cui possiamo fare riferimento, e ribaltare i parametri dati.
Misurare il successo in relazioni felici, in amore appunto, e non in ricchezza, svalutare la violenza della occupazione, della denigrazione dei popoli nativi, per invece valorizzare e apprezzare la loro forza e la determinazione con cui resistono all’annientamento.
Mi sono trovata più volte a confrontarmi con queste posizioni di perbenismo ottuso ed escludente, che richiedono parole gentili, urbanità del comportamento, prima e oltre i contenuti. Siamo al punto che Israele può lamentarsi con le ambasciate per le manifestazioni di solidarietà con i Palestinesi e di rigetto della mattanza: si può schierare cecchini dietro un terrapieno e mandarli a sparare uccidendo gente inerme se solo si avvicina e ferendo in modo distruttivo, che lascerà il segno per tutta la vita, tagliare gambe, sogni e progetti, tutto si può, ma denunciare questo come un crimine contro l’umanità, chiamare gli assassini col loro nome, questo è scortese, è odio fomentato… E invece è amore per le persone, per i palestinesi martoriati e aggrediti, ma anche per gli israeliani che venogno trascinati nel baratro della violenza assassina e vivono una realtà assurda, in cui l’altra, l’altro non esistono se non come disturbo, non hanno diritti, non sono persone. E noi le mettiamo in evidenza queste persone, i loro volti, i loro sguardi, e qualche volta le loro ferite e la loro morte, perchè si prenda coscienza, si svegli un’onda di amore per la vita, per la resistenza e vengano salvati sia i palestinesi, che gli israeliani, e persino gli ebrei della diaspora, che cominciano sempre più numerosi a prendere le distanze da una terra che si vuole patria degli ebrei, costruita sulla distruzione di vite, di interi villaggi, sulla negazione di un altro popolo. La Palestina è il simbolo e il punto nodale di ogni riflessione perchè da lì partono altre mille azioni di violenza e di sterminio, basta citare i curdi, ma lo Yemen, la Siria, e poi L’afganistan da una parte e i Mapuche, i nativi americani dall’altra: interi continenti costruiti sulla violazione e la menzogna, sull’eccidio e la spoliazione.
Se non cominciamo a guardare in faccia le cose, e dirigere il nostro amore e il nostro sostegno ai popoli nativi, è inevitabile che si cada nella ottusa quiete degli ospiti del Titanic, che ballano mentre la nave si inabissa.
A questo punto siamo, e stiamo in bilico tra l’ottundimento di chi non vuole, o non può più vedere la crisi e il pericolo e non vuole essere disturbato nella sua squallida quotidianità, vuole i cuoricini, i sorrisi, le sensazioni superficiali, i fiori, i palloncini, e chi vuole sentire davvero amore e indignazione, il dolore delle ferite e la solidarietà tra eguali.
Certo, anche noi dobbiamo curarci anche di noi stesse, di ciò che sentiamo e ci coinvolge, perchè se rischiamo di dimenticarci di noi, possiamo essere travolte dalla rabbia, dallo scoramento.
Un ragazzo si è dato fuoco a Gaza, qualcuno dice in questi giorni, qualcuno dice che è un fatto di un anno fa, ma resta il fatto: morire di dolore, di solitudine, di abbandono, perdere forza e speranza, questo produce la mancanza di un amore solido, fattivo, che ti sostiene e ti protegge e non ti lascia solo. Siamo carenti, non siamo capaci di un amore grande come il mondo, ma dobbiamo curarci di tutto ciò che incontriamo, che attraversiamo perchè l’indifferenza è peggio ancora dell’odio, che può ritornare ad essere amore, mentre l’indifferenza è il vuoto.
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